sabato 15 marzo 2014

Ciriaco di Mili: il grande amanuense

Fra gli amanuensi italo-greci più operosi sul finire del secolo X ha ricoperto un ruolo fondamentale la figura di Ciriaco, monaco e prete, che lo storico francese Pierre-Henri Batiffol ipotizzò essere nato proprio a Mili.

Miniatura che raffigura un amanuense al lavoro
Il nome di Ciriaco appare nelle sottoscrizioni di due noti manoscritti custoditi nella Biblioteca Vaticana, il Vat. gr. 2020 e il Vat. gr. 2138. Le due sottoscrizioni furono trascritte, studiate e riferite al copista da Pierre Batiffol, pioniere degli studi sui monoscritti e sulle biblioteche delle badie greche del meridione, che pubblicò nel libro l'Abbaye de Rossano del 1891. Ed è proprio da una di tali sottoscrizioni che monsignor Battiffol ritenne di poter desumere che Ciriaco fosse originario di Mili al punto che molti altri studiosi hanno in seguito ripetuto la notizia dell'origine messinese di Ciriaco.

Ma chi erano gli amanuensi? Erano delle figure professionali che per mestiere ricopiavano i manoscritti. Nel Medioevo questo lavoro era perlopiù affidato ai monaci, che copiavano i testi in una stanza adiacente alla biblioteca, detta scriptorium. Era una delle stanze più importanti delle abbazie, ed era l’unica ad essere sempre riscaldata. Qui il monaco copista trascriveva i testi in silenzio, interrompendo il suo lavoro solo per le preghiere; di rado era aiutato da un altro confratello che dettava e controllava, a sua volta, eventuali errori del testo.

Ogni libro era trascritto da un solo amanuense, mentre le decorazioni, a volte, potevano essere realizzate anche da altri monaci. In una sola giornata di lavoro un amanuense riusciva a riempire ben quattro fogli di pergamena, con grande attenzione e fatica, come ci dice uno stesso di loro: «annebbia la vista, incurva la schiena, schiaccia le costole ed indolenzisce il corpo».

Il più antico tra i due manoscritti di Ciriaco è un Evangelario, il Vat. gr. 2138, dalla cui stessa sottoscrizione apprendiamo essere stato ultimato, a Capua, il 12 giugno 991. È un codice di lusso come dimostra il suo formato, la buona qualità della pergamena, gli ampi margini e la presenza di numerose ed eleganti miniature. Il codice entrò quasi subito nella biblioteca Criptense di Grottaferrata, dove vi restò almeno fino al 1752, poi nella ricchissima biblioteca del cardinale Domenico Passionei, nella Biblioteca Angelica in Roma, nel 1763, e infine nella Biblioteca Vaticana.

Il Vat. gr. 2020, invece ha un'aspetto più modesto, è scritto con grafia di modulo minore ed ha un'ornamentazione meno importante. In realtà è un manoscritto composito, costituito almeno da due parti, entrambe sottoscritte e recanti il nome di Ciriaco. Non si conoscono le biblioteche che hanno ospitato il codice nei secoli successivi, a parte il convento di San Basilio a Roma, dove vi arrivò alla fine del XVII, e la Biblioteca Vaticana, sua ultima meta.

Una sottoscrizione presente nell'opera riporta proprio l'epiteto su cui si basò monsignor Batiffol per affermante che Ciriaco era originario di Mili:

Ciriaco ό μελαὶοϛ

Un appellativo che per lo storico transalpino della Chiesa non poteva prestarsi a fraintendimenti: Ciriaco o melaios ovvero Ciriaco di Mili.

Della vita di Ciriaco non conosciamo molto perché quando gli storici iniziarono ad interessarsi alla sua figura si erano già recisi i fili della memoria. Sappiamo solo che esercitò la sua attività di copista, monaco e sacerdote a Capua, in Campania, che realizzò almeno due codici, e che forse veniva davvero da Mili, cresciuto magari all'ombra del piccolo cenobio dedicato a San Basilio, esistente a Mili Superiore, e sulle cui rovine, alla fine del XI secolo, verra poi edificato il Monastero di Santa Maria.

Gli storici che considerano Ciriaco come originario di Mili, sposano proprio questa tesi, supponendo proprio che l'abbazia di fondazione normanna sia sorta sul posto di un'altra più antica, che sarebbe stata distrutta dagli Arabi: da questa primitiva abbazia Ciriaco sarebbe fuggito, «come tanti altri obbligato ad emigrare nel continente durante l'invasione araba».

L'Abbaye De Rossano, 1891 Byzantina et Italograeca, 1997
La filologa Enrica Follieri in una monografia del 1973 dedicata all'amanuense, Ciriaco, o melaios appunto, fornisce una chiave di lettura che contrasta con le deduzioni di Batiffol. Attraverso un'attenta disamina sulla forma Mili riportata nei documenti del tempo, in particolare quelli riferiti al cenobio di Santa Maria, arriva a dissentire totalmente con la tesi dell'eminente prelato. La studiosa peraltro individua su altri manoscritti lo stesso vocabolo, uno dei quali in una trascrizione fatta da un copista anonimo, contemporaneo di Ciriaco.

Non entro nei tecnicismi che hanno portato la Follieri a trarre le sue conclusioni e consiglio, a chi volesse approfondire, la lettura integrale del suo scritto. Voglio però ricordare una sua stessa osservazione riportata tra le pagine del saggio:
Se μελαὶοϛ non equivale a «originario di Mili», quale valore
ha questo vocabolo nella sottoscrizione di Ciriaco?
Una cosa è certa. Dobbiamo ringraziare Ciriaco perché grazie ai suoi lavori e alla sua «firma» diversi studiosi, nel tempo, hanno disquisito sul nostri villaggi proiettando in nome di Mili nell'universo culturale.

Bibliografia:
A. Acconcia Longo, L. Perria, A. Luzzi, Enrica Follieri. Byzantina et Italograeca. Studi di filologia e di paleografia, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1891
E. Follieri, Ciriaco, o melaios (Ciriaco di Mili), in Zetesis, Antwerpen-Utrecht, 1973

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